Laboratorio di Filosofia e Teatro 5 – La Rivolta

Nicolaj Stravroghin e Aleksej Kirillov sono individui in rivolta. In apparenza, si presentano come dei pretesi rivoluzionari, cospiratori che intendono abbattere il regime dello Zar, sopprimere le disuguaglianze, aiutare il popolo ecc. In realtà, sono in rivolta, anzitutto contro se stessi e contro il mondo cui appartengono. Sono individui che dicono NO, in modo radicale, assoluto.

Dopo la crisi dell’idealismo tedesco – età eroica della filosofia occidentale, corrispondente al periodo della Rivoluzione francese – e il tramonto dell’Illuminismo, agli inizi dell’Ottocento, due furono le vie percorse dalla filosofia europea, quella più originale, che s’affermarono prepotentemente: il pessimismo anarchico e individualista di Schopenhauer e Nietzsche – una delle radici del nichilismo ottocentesco, alla quale va aggiunta la figura importante di Max Stirner – e l’ottimismo volontaristico e rivoluzionario della “sinistra hegeliana”, con Feuerbach, Marx, Engels e i rivoluzionari anarchici russi, come Bakunin. Il tema della rivolta, che è al cuore della filosofia di Albert Camus, è profondamente legato a questa duplice radice concettuale e antropologica del nichilismo. L’individuo-soggetto si emancipa, con la sua rivolta di fronte al mondo, distruggendone i fondamenti riconosciuti  di valore, per affermare la propria libertà di singolo, singolo costruttore di nuovi valori. Per quanto Marx si prenda gioco, con profonda e amara ironia, di questa tendenza storica, al punto da chiamare “San Max”, lo Stirner de L’Unico, nella La Sacra Famiglia, anch’egli appartenne, volente o no, alla stessa generazione di distruttori filosofici.

“Io mi rivolto, dunque noi siamo”. Questa è la formula anti-cartesiana che Camus utilizza in L’Homme révolté (1951, file pdf) per indicare il senso della sua proposta etico-politica. E’ un nuovo “cogito”  che assume l’atto etico del dire-di-no a un mondo assurdo, come il punto d’inizio di un nuovo essere, migliore, più ricco, più vero, più creativo  ecc. Questo nuovo essere è o instaura un valore che dormiva nel profondo dell’essere umano o era stato ricacciato, dalle potenze negative della storia, fuori dell’esistenza degli uomini. Camus oppone così, alla rivolta (in tal senso) etica, screvra di violenza, la rivoluzione, che pure nasce o può nascere da una genuina istanza di rivolta, ma degenera spesso – anzi quasi sempre – in nuova oppressione, nuovi privilegi, nuove ingiustizie ecc. generando un nuovo assurdo. Sotto gli occhi di Camus  – e sotto gli occhi dell’intellighentsia europea – stavano allora i crimini dello stalinismo che proprio in quegli anni (1950-1960) si sarebbero rivelati nella loro piena dimensione universale. Delle semplici “deviazioni” dalla linea retta della (giusta) storia (quella del comunismo)? La risposta, netta e forte, di Camus fu un NO, altrettanto deciso, alto e forte.

Camus conclude allora che essere è ribellarsi, vivere eticamente è rivoltarsi perennemente. Ogni nostro respiro è un atto di rivolta. Altrimenti non siamo, non attingiamo alcun valore. Questa instancabile denuncia della realtà, questo suo trasformarla in ostacolo permanente, questa tensione che sola ci fa essere ed essere nel valore – senza la pretesa di assolutizzare l’atto in uno Stato –  può, al limite, consentire all’idea di rivoluzione di rivivificarsi, trovando nella rivolta i suoi giusti limiti. Fu questo il grande tema della polemica che oppose Camus a Jean-Paul Sartre, compagno di strada dei marxisti francesi anche dopo la morte di Stalin e dopo la rivelazione dei crimini dello stalinismo.

Osserva acutamente Corrado Rosso:

La rivoluzione diviene dunque una norma dell’essere. Una norma che può corrompersi, ma che è essenziale alla realtà. La rivoluzione non è più uno scandalo, ma un modo di essere dell’uomo, con tutti i pericoli e gli abissi che comporta. Gli esistenzialisti di cui si nutriva Camus osservavano e teorizzavano che esistere è un emergere, uno sporgersi, uno staccarsi dalla banalità dell’essere: ex-sistere. In un senso Camus continua e perfeziona questa dottrina, se ex-sistere vuol anche dire elevarsi, ergersi, mettersi in piedi.

Eppure, il problema fondamentale non era ancora risolto: l’assurdo della/nella condizione umana. In una pagina folgorante dell’Introduzione à L’Uomo in rivolta Camus accosta la condizione etica del rivoltoso (révolté) di fronte all’assurdo, al dubbio cartesiano di fronte all’incertezza della conoscenza sensibile:

L’assurdo, come il dubbio metodico, ha fatto tabula rasa. Ci lascia in un vicolo cieco. Ma come il dubbio, esso può, tornandoci sopra, orientare una nuova indagine. Il ragionamento continua allora allo stesso modo. Grido che a nulla credo e che tutto è assurdo, ma non posso dubitare del mio grido e devo almeno credere alla mia protesta. La prima e sola evidenza che mi sia data così, all’interno dell’esperienza assurda, è la rivolta. Privo d’ogni scienza, incalzato a uccidere o ad acconsentire a che si uccida, dispongo di questa sola evidenza che trae nuova forza dal dissidio in cui mi trovo. La rivolta nasce dallo spettacolo dell’irragionevolezza, davanti a una condizione ingiusta e incomprensibile. Ma il suo cieco slancio rivendica l’ordine in mezzo al caos e l’unità al cuore stesso di ciò che fugge e scompare. Essa grida, esige, vuole che lo scandalo cessi e che si fissi finalmente quanto finora si scriveva senza posa sull’acqua. è ansiosa di trasformare. Ma trasformare è agire, e agire, domani, sarà uccidere, mentre non sa se l’omicidio sia legittimo. La rivolta genera appunto le azioni che le si chiede di legittimare. Bisogna pure che essa tragga da sé le proprie ragioni, poiché non può trarle da null’altro. Bisogna che acconsenta ad esaminarsi per imparare a comportarsi.

La rivolta è così la “prima evidenza” di un atto etico che servirebbe a dissipare le nebbie dell’assurdo e a trovare una misura, un criterio e un ordine nell’agire. Ma i casi estremi di nichilismo legati all’esperienza dell’assurdo (l’assassinio politico in nome dell’Idea) non riescono a compiere la “risalita” dalla notte del dubbio assurdo, alla rivolta come luce, la prima evidenza dell’atto etico. “Quando crede, non crede di credere; quando non crede non crede di non credere”: entra in scena la figura di Stavroghin, dei “Demoni” di Dostoevskij, opera che ha letteralmente ossessionato Camus per oltre vent’anni. E solo alla fine di un lungo travaglio intellettuale il filosofo troverà una risposta con I Posseduti (1959). La rivolta di Stavroghin annulla se stessa, si rivela un’altra forma, inane, di autodistruzione e di distruzione dell’altro: il terrorismo. Sarà  l’ultima opera che il filosofo porterà a compimento, prima della morte (assurda) in un incidente d’auto.

Dove e come trovare le risorse etiche e intellettuali atte a rispondere alla sfida del terrorismo ? Risorse che non facciano leva ovviamente su risposte a loro volta violente, che usino l’assassinio (legalizzato con la guerra) come mezzo? Il cuore del problema risiede nel profondo delle mentalità e del costume contemporaneo, oramai omologati e diventati globali, che può essere riassunto in una formula assai efficace: l’egolatria narcisistica del XX (e XXI) secolo, che Stavroghin e i suoi emuli hanno profeticamente annunciato.

E’ stato evocato, durante il nostro seminario, l’ideale dell’ “eroe randiano”, proposto da Ayn Rand (1905-1982) intellettuale e scrittrice russa esule negli USA durante gli anni ’40 del Novecento, la quale seppe incarnare in esso una sorta di uomo-non-comune all’interno della massa democratica, che coltiva se stesso, i propri valori e non impone né intende imporli a chicchessia, in una società libera quale quella degli Stati Uniti del secondo Novecento. Il limite dell’eroismo randiano sta nel fatto che costui non è mosso da alcun ideale di giustizia sociale – se non il mantenimento dei rapporti sociali e di potere esistenti – e non assume un vero impegno di verità nei riguardi degli altri uomini al di la del se-stesso e della propria personale “cultura”. Ora, è proprio questo il problema sollevato da Camus ne I Posseduti: come fare della rivolta un valore, che possa essere in certa misura (sottolineando la “certa”) condiviso da altri uomini, al di là dell’affermazione della libertà dell’Ego.

Le rivoluzioni implicano una certa misura di nuova oppressione, dunque vanno se non respinte, riformate nel loro intimo impulso (questa la risposta di Camus alle critiche di Sartre). Occorre stabilire un nuovo rapporto tra rivolta e rivoluzione, la quale ultima non potrà mai essere una rigenerazione totale che dia vita a un “uomo nuovo”, ma tenda solo a definire le condizioni affinché sorga infine un uomo “meno ragionevolmente colpevole”. La rivolta dice NO, e il cambiamento che intende istituire potrà essere giudicato solo a posteriori, dopo l’atto compiuto con misura: l’ex-post, l’atto singolo di rivolta potrà poi (ma solo “potrà”) divenire collettivo.

Stavroghin, dunque, come metafora del contemporaneo che sta sotto gli occhi di tutti: l’egolatria narcisistica. Stavroghin ha un’etica? L’affermazione di sé, che è il suo solo motore, è la sua non-etica. Ed è questo il nemico da combattere.

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