Il Laboratorio di Filosofia e Teatro – a.a. 2019-2020 – 9 ottobre 2019

Il nuovo Programma delle attività del Laboratorio di Filosofia e Teatro

– a.a. 2019-2020 –

(Inizio attività: mercoledì 9 ottobre 2019, ore 17.00-20.00, Aula T 33)

 

Non esiste superficie che sia bella

senza la terribilità degli abissi

Nietzsche

 

In teatro, come in ogni genere artistico, non esiste forma bella che non nasca da un terribile lato oscuro, profondo, forse inconoscibile. Non esiste vera creazione artistica senza la capacità di attingere, con o senza consapevolezza, la profondità irriducibile che contraddistingue l’enigma costitutivo dell’essere umano. L’arte necessità di questa indagine; e attraverso questa esprime le sue forme più belle.

L’arte teatrale seduce, rapisce, crea menzogne, finzioni; eppure grazie a queste finzioni, grazie alla menzogna, possiamo ritrovare i sensi dell’esistenza, le uniche ragioni possibili del nostro essere uomini. Si può affermare senza indugio che non c’è vita veramente umana senza finzione, senza rito, senza ritmo, senza arte.

Il teatro, proprio in quanto espressione artistica che non può esistere senza mettere al centro necessariamente quell’enigma, è la forma espressiva in cui chiaramente emerge il bisogno profondo di un’indagine interiore delle forme.

Si partirà,  dunque, nel nostro lavoro di Laboratorio di Filosofia e Teatro (LFT), dagli spunti di riflessione offerti dall’opera La Nascita della Tragedia e dalla relativa analisi dei principi formali del Dionisiaco e dell’Apollineo, secondo la concezione nietzscheana dei due principi, nel tentativo, che non ha e non può avere pretese scientifiche, ma che si fonda sul  «libero gioco» costitutivo di ogni sperimentazione teatrale, di partire dalle riflessioni del genio di Nietzsche per collegarle al bisogno di aderenza con il profondo del senso, che ha caratterizzato la grande rivoluzione dell’arte drammatica dalla seconda metà dell’800 in poi e che ha trovato la massima espressione nel teatro del ‘900. È necessario precisare che già nel suo Paradosso sull’attore (1772), Denis Diderot (1713-1784) aveva, tra le righe, preannunciato l’esigenza di un metodo nuovo per avvicinare l’espressione artistica caratterizzante l’arte drammatica alle nuove ritrovate esigenze di «verità» o, per meglio dire, di «profondità» del senso.

Sarà poi il Teatro della Compagnia dei Meininger (1870-1890) del Duca Giorgio II di Meiningen (1826-1914), qualche decennio più tardi, a recepire chiaramente le nuove esigenze espresse nel Paradosso di Diderot e ad avviare le premesse di una prima rivoluzione portata in seguito a definitivo compimento da Konstantin S. Stanislavskij (1963-1938) prima e da Lee Strasberg (1901-1982) poi. Da qui, tutta la grande evoluzione del teatro del ‘900 con le sue diverse connotazioni e i suoi bisogni di ricerca che sono a tutt’oggi ricchi di fermenti nuovi.

Ebbene, anche nelle suddette ritrovate esigenza di verità si può intravedere una declinazione dell’analisi del senso profondo dell’esistenza umana, che prenderà corpo, negli stessi anni di Meiningen, nei termini nietzscheani del rapporto tra dionisiaco e apollineo (La Nascita della Tragedia, 1872), nel quale si esprime, da sempre, la necessità di portare alla luce profondità e oscurità del senso attraverso un’armonia espressiva.

Da questo contrasto, sempre agente, deriva la bellezza, la quale, beninteso, non va recepita in senso neoclassico, ma è da intendersi come «il fare luce sull’oscurità», ovvero come il risultato di quel percorso che la esalta proprio in quanto bellezza, che trova fondamento in una verità dove non regna incontrastato il principium individuationis, il frammentarsi dell’unità, ma un’altra realtà, più vera, più sensata, capace di far gettare lo sguardo verso un’unità originaria, attraverso la quale si erige una grandiosa difesa contro l’insensatezza dell’esistenza. È la stessa difesa che, secondo Nietzsche, sono stati capaci di erigere i Greci, i quali furono talmente forti, sani, e generosi da riuscire a creare la grandiosa arte della tragedia, grazie alla quale hanno espresso tenacemente il loro si alla vita, al di là di ogni fondato pessimismo.

In tutte le espressioni e le interpretazioni drammatiche dove trovano spazio i motivi profondi di quella esigenza rivoluzionaria, si possono sperimentare praticamente, gli aspetti caratterizzanti «la messa in luce del profondo». Questo «fare luce», questo tentativo di esprimere il dionisiaco, ha però bisogno di un metodo, ha bisogno di una forma.  La recitazione ha avuto ed ha bisogno di un metodo; il teatro ha bisogno di un metodo; ogni espressione artistica esige un metodo. Questo «metodo» non è altro che l’esercizio dell’apollineo attraverso il quale si dà forma al dionisiaco. L’arte nasce da motivi profondi: dal dolore, da quel dolore in cui non governa la cosiddetta «soggettività». L’arte nasce dal dionisiaco. Questo dolore può diventare «fenomeno», «parvenza», solo attraverso l’apollineo. Maggiore sarà la profondità, maggiore sarà la potenza creativa; ma tale potenza creativa diventerà «espressione artistica» solo se guidata dalla forza formatrice dell’apollineo.

Il teatro (theatron, «luogo dell’ammirazione») potrà divenire così il luogo della rivelazione, potrà essere quel luogo magico in cui la Filosofia scende nella vita, dove la Filosofia si fa Pratica.

Questo sarà uno dei punti principali del nostro lavoro teorico e pratico del Laboratorio di Filosofia e Teatro. Porteremo i partecipanti del corso non solo a comprendere i motivi del grandioso rinnovamento che ha caratterizzato l’arte della recitazione dalla metà dell’800 in poi, ma anche a sperimentare, attraverso esercizi mirati, la differenza tra una recitazione declamatoria ed enfatica e un lavoro espressivo che mette al centro, appunto, il profondo, al quale si tenterà di dare forma con la tecnica interpretativa.

Tale percorso troverà il suo compimento nella messa in scena del saggio spettacolo che costituirà, nel mese di maggio 2020, il risultato finale del nostro studio. Il testo su cui lavoreremo sarà la pièce di Georg Büchner (1813-1837) La Morte di Danton (1835), nell’adattamento del Prof. Paolo Quintili, intitolato La Morte dell’Utopia (1994). Partendo dall’analisi teorica e filosofica del testo, si passerà alle lezioni di recitazione, durante le quali i partecipanti si avvicineranno al metodo di cui abbiamo parlato, e interpreteranno il personaggio assegnatogli, in modo da arrivare al risultato finale che, come si è detto, sarà una messa in scena vera e propria, con luci, scene, e costumi.

L’attività didattica, aperta agli studenti del corso di laurea in Filosofia, come a tutti gli altri studenti della Macroarea di Lettere e Filosofia, dà diritto a 6 CFU in piano di studi per «Altre attività formative» o «Attività utili all’inserimento nel mondo del lavoro».

 

Fabrizio Vona

Paolo Quintili

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Nel primo incontro del nuovo ciclo 2019-2020 – il IV – del Laboratorio di Filosofia e Teatro è stato presentato il programma di lavoro che svolgeremo quest’anno a partire dal testo della pièce di Büchner La Morte di Danton, nell’adattamento dello scrivente: La morte dell’Utopia. Epiloghi della Rivoluzione (1994).

I testi di riferimento su cui lavoreremo sono:

1 – P. Quintili, La morte dell’Utopia. Epiloghi della Rivoluzione (Testo in pdf).

2- F. Nietzsche, La nascita della Tragedia (1772, testo in pdf);

3 – K. S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore su se stesso (trad. it. Laterza, 1996, testo in pdf);

 

 

Oltre questi testi a programma, utilizzeremo anche altri materiali, utili allo svolgimento del lavoro tecnico-pratico che metteremo a disposizione, volta a volta, su questo Blog.

Il primo testo da leggere e da imparare è ovviamente la pièce su cui lavoreremo: La morte dell’Utopia. I concetti utili per comprendere e interpretare questo testo li ricaveremo poi, parallelamente, attraverso le lezioni, dalla lettura della Nascita della tragedia di Nietsche, e del Lavoro dell’attore su se stesso di Stanislavkij.

Buon lavoro a tutti/e!

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